Il Coraggio della Libertà
Siamo solo potenzialmente liberi, la libertà non è un modo d'essere
dell'uomo in quanto tale, indipendente dal suo sapere, dalla sua
volontà e dalla sua prassi. La libertà dalle passioni e dal vizio si
realizza solo mediante la disciplina e l'educazione; la libertà in senso
politico, la libertà dalla tirannide, si raggiunge e si mantiene con
l'azione politica e l'esercizio delle prerogative idonee a mantenerla
viva e attuale. Perciò l'alternativa tra libertà e necessità è falsa; l'uomo
può diventare libero da tutto ciò che limita la sua capacità di
decisione, scelta e azione, ma può anche adagiarsi nell'assuefazione a
dispotismi allettanti. Tutti sono sottoposti al tirocinio della libertà; la
vita etica è liberazione da tutto ciò che limita e opprime: dalle pessime
abitudini, dal bisogno, dalla malattia, dalla miseria, dalla tirannia del
tempo, dai seccatori, dall'invidia del prossimo, dal conformismo
moralistico della società e, infine, dalla morte. Non ci sentiamo forse
sollevati e realizzati, padroni di noi stessi, non appena riusciamo ad
avere la prova di avere sconfitto una qualche dipendenza, di avere
spezzato qualche catena privata o pubblica? Nel suo Discorso sulla
servitù volontaria Étienne de La Boétie enumerava le circostanze che
inducono gli esseri umani, sia individualmente che collettivamente, a
rinunciare alla libertà cui hanno diritto. Ma la causa principale è la
rinuncia interiore, la mancanza di coraggio, la subdola ignavia per cui
si preferisce seguire la corrente del conformismo e godere dei
vantaggi derivanti dall'obbedienza acquiescente ai tiranni di varia
specie che in ogni epoca irreggimentano e manipolano le coscienze.
Ercole al bivio (Prodico di Ceo) e l'Encomio di Elena (Gorgia di
Lentini) sono i due archetipi all'origine di due rivendicazioni opposte.
Se abbiamo un buon motivo per sostenere che siamo liberi, ad
esempio l'esigenza di rivendicare un merito che non ci è riconosciuto,
escludiamo con sdegno l'ipotesi di essere manovrati da un burattinaio
nascosto. Infatti la comoda convinzione di essere agiti, indirizzati,
guidati a nostra insaputa, cozza con il nostro diritto e interesse di
essere liberi e fa emergere necessariamente un burattinaio che non
solo agisce per nostro tramite, ma provvede anche a creare l'illusione
della nostra libertà. Il burattinaio deve essere molto abile ad agire al
posto del soggetto facendogli credere di essere la sola origine di ogni
sua decisione e azione. E se esiste un burattinaio che opera alle nostre
spalle, possiamo dire che l'Io è un altro, Io non sono Io. Ma l'Io che
mette in conto l'esistenza del burattinaio proprio per questo l'ha
smascherato e quindi il suo sguardo comprende anche la potenza
oscura e incoercibile che manovra l'Io. Ora, l'Io da cui proviene lo
sguardo comprensivo dell'Io e del suo burattinaio sarà a sua volta
mosso dal burattinaio? A questo punto siamo dinanzi a un'antinomia.
Se lo sguardo comprensivo è anch'esso agito dal burattinaio, allora si
apre un regresso all'infinito: ad ogni passaggio a un ulteriore sguardo
che incapsula quelli precedenti, come in una sequenza di scatole
cinesi o bambole russe, ricompare il burattinaio, l'altro dell'Io, in un
processo di sdoppiamento e superamento del dualismo destinato a
protrarsi indefinitamente. Ora, il regresso all'infinito è già di per sé
un'obiezione, che tuttavia mostra come ad ogni passaggio regressivo
l'Io mantenga la posizione dominante e inoltrepassabile che gli può
essere riconosciuta senza alcuna mediazione. Quindi o il burattinaio,
l'alterità dell'Io, svolge la funzione di condizionamento ontologico e
dimostra l'impossibilità dell'Io di dichiararsi libero e padrone in casa
propria in qualsiasi fase e livello dell'attività dell'Io, compresa quella
riflessiva, oppure il burattinaio non esiste e l'Io deve tutta la propria
attività unicamente a se stesso. Allorché l'Io si dimette dalla propria
carica, evoca/convoca il suo altro, il quale dunque non preesiste a un
Io irrefragabilmente pilotato da una potenza estranea. La soluzione
dell'antinomia non è teoretica, ma pratica: l'Io può essere libero se
vuole esserlo, togliendo ogni potere d'iniziativa al burattinaio. Ma la
teoria riflette la prassi: la rinuncia alla libertà diventa irrimediabile
per l'Io e preziosa per il tiranno quando è accompagnata da una
concezione deterministica dell'agire umano che giustifica ogni forma
di rassegnata impotenza e supina obbedienza.
Anche ammesso che potessimo dimostrare conclusivamente che
non siamo liberi, il significato fondamentale della nostra posizione
teoretica, basata su analisi e ragionamenti rigorosi, sarebbe pur
sempre che in essa si esprime la nostra capacità di volere. È superfluo
ricordare che anche il determinista attribuisce a se stesso almeno la
libertà di pensare la teoria che sostiene. Nessun determinista sarebbe
disposto ad ammettere che sostiene necessariamente, e non
liberamente, quella stessa teoria che nega la possibilità della libertà.
Quindi possiamo dire che l'argomentazione con cui si sostiene una
visione deterministica è in contraddizione con se stessa, visto che per
argomentare bisogna pensare e per pensare bisogna essere liberi.
Come negare questo? Come non ammettere che ogni attività di
pensiero è essenzialmente libera e che perciò sarebbe logicamente
assurdo pretendere che non sia libero in linea di principio quello
stesso Io che deve poter essere incondizionato almeno nell'attività di
pensiero con cui pretende di dimostrare la propria non libertà?
Se vogliamo inchiodare un inquisito alla sua responsabilità, non
esitiamo a dare per scontato che nel commettere una certa azione il
nostro soggetto era perfettamente libero e capace di intendere,
sapeva quel che stava facendo; se invece siamo avvocati della difesa,
abbiamo ogni interesse a sollevare dubbi sulla sua effettiva
condizione di uomo libero da ogni forma di pressione e costrizione,
sia in assoluto sia, soprattutto, in riferimento alle circostanze del
crimine commesso. A seconda che vogliamo condannare o giustificare,
trafiggere o risparmiare il colpevole, gli attribuiamo la capacità di
essere libero oppure gliela neghiamo. È fin troppo noto che il concetto
di libero arbitrio si presta spesso a manipolazioni strumentali e a
flessioni opportunistiche. Dunque sembra proprio che la volontà di
essere liberi o che qualcuno sia libero oppure no, sia più rilevante
della possibilità oggettiva di esserlo. I criminali di guerra non hanno
forse cercato di giustificarsi ricordando che essi erano tenuti a
eseguire degli ordini ai quali non potevano sottrarsi? Essi ci dicono:
non eravamo liberi di ascoltare la nostra coscienza, non ci era
consentito, la nostra coscienza non contava nulla. Noi però, lo
sappiamo bene, potremmo rivolgere loro l'obiezione fondamentale:
voi avreste potuto essere liberi, se solo l'aveste voluto, se solo aveste
preferito ascoltare la vostra coscienza invece di obbedire a ordini la
cui esecuzione voi stessi condannavate come rinuncia ad essere voi
stessi.
E la domanda a questo punto potrebbe essere: davvero essere
liberi significa obbedire alla propria coscienza anziché a ordini venuti
da fuori o alle proprie inclinazioni? Ebbene, qui è esattamente il
punto: essere liberi significa impegnarsi in ogni momento per
sottrarsi alla dipendenza da qualcosa che limita la propria libertà
presente. Non si è liberi, ma ci si libera da qualcosa che minaccia,
limita o costringe. Tutta la libertà di cui siamo capaci è questo
distanziarsi da una dipendenza prima di ricadere in un'altra, e così
via: la libertà è un intervallo di sospensione tra un non più e un non
ancora. Ma non si può volere essere liberi se non si è coraggiosi. Del
resto, abbiamo paura della libertà che possa esserci riconosciuta,
perché allora saremmo inchiodati alla nostra responsabilità anche per
tutto ciò che rinneghiamo di aver fatto, per le azioni che non
riusciamo ad accettare di aver commesso. Per questo si tende sempre
a porre obiezioni alla tesi del libero arbitrio, per non dover
sopportare tutto il peso di una colpa solo nostra? È molto facile
ricapitolare il proprio vissuto come se fosse quello di un altro, come
se riguardasse un'altra persona. E, in un certo senso, il proprio Io
passato è diventato un altro, non fosse che per poterlo rappresentare
nell'adesso di un Io che stenta a riconoscervisi. La libertà presuppone
una decisione e questa è dettata dal coraggio.
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La prova del nove della possibilità di essere liberi è rappresentata
dall'ineludibile via di fuga dalla necessità o dalla costrizione, che ci è
data in ogni caso − come Seneca e Sartre insegnano da un capo
all'altro della storia − dal fatto di avere a portata di mano un'ultima
porta di sicurezza, nel caso estremo in cui il soggetto sia stato privato
della sua libertà e dignità, vale a dire della ragione per continuare a
vivere. Quindi, possiamo essere liberi se solo lo vogliamo, non ci sono
scuse, questo è tutto. Non esiste alcuna costrizione dalla quale non ci
si possa svincolare se si ha la volontà di sottrarsi. Naturalmente non si
vuole essere liberi, ma si aspira a diventarlo ogni volta che, superato
l'ostacolo del momento, si presenta un nuovo limite.
I modi della libertà e del suo opposto sono innumerevoli. Si può
lottare per essere veramente liberi nel senso delle libertà previste
dalla nostra costituzione: libertà politica, di associazione, di pensiero,
di espressione, di religione e così via. Anche queste libertà sono
sempre a rischio e non sono mai conquistate una volta per tutte. A
forza di esercitarle si perde la vigilanza insonne che può preservarne
l'effettualità. Chi vuole essere libero non può cedere all'abitudine, alla
seduzione degli automatismi o rassegnarsi all'inevitabile sopravvento
di interessi e appetiti individuali o corporativi. Se guardiamo al libero
arbitrio nella dimensione interiore, il discorso non cambia di molto.
Anche qui vediamo che la libertà di autodeterminazione, la capacità di
decidere consapevolmente esige una volontà ferrea di sottrarsi alla
schiavitù dell'inerzia, delle passioni radicate, dell'impulsività
irrefrenabile, del sentimento di dipendenza che procura una specie di
camicia di forza (paura, angoscia, senso di sradicamento, solitudine
esistenziale, ecc.). Anche qui l'autodeterminazione non si presenta
come una condizione o una capacità permanente, intrinseca alla
psiche, per così dire, di ogni uomo e di ogni donna, ma sempre solo
come un conato, uno sforzo diseguale a seconda dei momenti e delle
fasi della vita, con cui l'Io tende a prendere possesso di se stesso,
senza mai riuscirvi completamente. L'Io è libero, nel senso del libero
arbitrio, se non è determinato da nient'altro che da se stesso, ossia dal
principio che ha posto a fondamento della propria azione. L'Io
perfettamente libero dovrebbe essere in grado di escludere che a
determinarlo possano concorrere elementi estranei al suo potere e
alla coscienza che esso stesso ne può avere.
L'autodeterminazione perfetta dell'Io è, per definizione, solo un
ideale impossibile da raggiungere: infatti ciò che spinge l'Io all'azione
autodeterminante è proprio lo sforzo di sottrarsi all'imperio di forze
allotrie dentro di sé - sforzo che non sussisterebbe qualora non ci
fosse più alcuna forza estranea che si mette di traverso e trattiene l'Io
in uno stato di sopraffazione. La liberta di autodeterminazione è un
processo che ha bisogno di negare la propria dipendenza da altro, di
svincolarsi dai lacci che, di volta in volta, trattengono lo slancio dell'Io
- il quale dunque può esistere solo come un procedere oltre,
prendendo congedo dal limite che gli impedisce di essere se stesso.
L'Io aspira a essere se stesso, a bastare a se stesso nel duplice
significato psicologico e morale. L'autarchia dell'Io è un ideale
irraggiungibile, e tuttavia un principio guida indispensabile perché
abbia senso reclamare per l'Io l'autodeterminazione. L'identità dell'Io
non può fare a meno della rete di interdipendenza in cui di fatto vive,
evolve e si trasforma nel tempo. Ma autodeterminazione e
interdipendenza non sono mutuamente esclusivi, bensì
dialetticamente congiunti, se la dipendenza non è intesa come
sottomissione servile, ma come l'aria di cui la colomba kantiana ha
bisogno per volare, né più né meno di una condizione a priori della
possibilità dell'esistenza dell'Io e della persona. L'autodeterminazione
è un principio guida e una regola per cui l'Io diventa consapevole della
necessità di conquistare, affermare e difendere la propria libertà,
riconoscendosi al tempo stesso chiamato a rispondere di se stesso.
Che libertà e responsabilità, autodeterminazione e interdipendenza
siano coessenziali al concetto di persona, è l'intuizione fondamentale
che dobbiamo all'etica aristotelica.
Anche se si potesse dimostrare che la persuasione di essere
liberi è un'illusione di cui gli esseri umani hanno bisogno per vivere e
interagire in una comunità di persone, non si potrebbe dubitare del
fatto che tale persuasione esprime un'aspirazione, denuncia una
condizione di non libertà e segnala uno sforzo di emancipazione. Se la
libertà fosse solo un'illusione e gli esseri umani agissero in senso
deterministico ignorando le forze che li spingono ad agire nel modo in
cui agiscono, non si vede come si potrebbe giustificare la differenza -
depositata nel linguaggio stesso - tra libertà e schiavitù, spontaneità e
coazione. Analogamente, se ogni nostra azione fosse un espediente al
servizio dell'interesse personale, se l'altruismo fosse una variante
dell'egoismo, mancherebbe la ragion d'essere della distinzione dei
due concetti morali. Categorie come libertà, responsabilità, scelta,
decisione sono caratteristiche riferibili unicamente a soggetti, non a
oggetti. La distinzione tra soggetto e oggetto è ultimate, direbbe John
McTaggart: originaria; e non rappresenta un'obiezione il fatto che
possa essere assunta e fatta valere unicamente dal soggetto che pensa
e vuole, decide e agisce, vince e soccombe nel corso della sua
esistenza.
Solo un soggetto può argomentare su ciò che riguarda sia
l'oggetto che se stesso; solo un soggetto può rappresentarsi il mondo
e se stesso, nonché percepire empaticamente gli altri soggetti. Solo un
soggetto può produrre argomenti a sostegno della propria esistenza o
inesistenza. Se il soggetto fosse riducibile a oggetto, rimarrebbe
incomprensibile l'attività razionale di cui esso è capace persino per
demolire se stesso e "smascherarsi" come mero oggetto mosso
sempre ab alio. All'opposto dell'oggetto, che rinvia sempre ad altro, il
soggetto non può essere compreso né esistere come tale se non
ammettendo un principio di autocausazione come elemento distintivo
specifico, come motore della sua stessa attività. "Autocausazione"
significa voler diventare ciò che si è, portare a compimento la propria
essenza. Se togliamo il principio di autodeterminazione al soggetto,
nel senso qui inteso, equiparando la coscienza al cervello e il cervello
a una macchina complicata di cui si riuscirà prima o poi a
comprendere il funzionamento, non abbiamo abolito quel soggetto di
cui pretendiamo di fare a meno dopo averlo "risolto" in un oggetto -
questo letto di Procruste dell'Io − solo perché abbiamo così l'illusione
di averlo spiegato e compreso. L'Io risorge sempre, ineludibile,
necessario, inoltrepassabile, inoggettivabile.
Potrei argomentare che, essendo condizionato in ogni mia
attività da innumerevoli fattori e da molti altri che non conosco, non
sono libero, perché scopro che non sono io che agisco, ma altri.
Eppure la scoperta di non essere libero come credevo sarebbe logica e
naturale se fosse il punto di partenza per potermi riappropriare della
mia indipendenza e libertà di manovra. Se non avessi la possibilità di
ritornare ad essere io il protagonista delle mie azioni, sarei un
soggetto solo per dimostrare che sono un'illusione, un abbaglio,
un'apparenza ingannevole. Se fosse illusoria la mia convinzione di
essere libero, lo sarebbe anche la mia esistenza di soggetto. E non
posso essere un soggetto senza esserne consapevole, perciò non
posso neppure essere un oggetto che è consapevole di nutrire
l'illusione di essere un soggetto. Solo un soggetto può concepire
l'illusione di essere tale - illusione che dunque espelle se stessa. Ecco
dunque la contraddizione in cui cadrebbe chi volesse ridurre l'Io a un
"esso", un oggetto. Un soggetto che "scopre" di essere solo oggetto, che
fa dell'oggettità la chiave della propria autocomprensione,
contraddice l'ontologia, offende la logica e umilia se stesso decretando
come sostanziale e definitivo lo stato di passività di un essere
destinato a rimanere schiavo "per natura e necessità".
La terza antinomia kantiana può essere richiamata come
espressione dell'irriducibilità dei due tipi di azione causale: quella
attraverso la libertà (durch Freiheit) e la causalità della natura,
l'autocausalità del soggetto e la causalità della sfera empirica. Diviene
allora possibile interpretare la causa che opera nella natura come la
proiezione e oggettivazione del soggetto. Nietzsche docet: mettiamo il
soggetto nella natura esterna e lo chiamiamo "causa". Ma il perimetro
della coscienza comprende ogni cosa esterna al soggetto. La causa è
un soggetto esterno, il soggetto una causa interna. In una prospettiva
monistica, sarebbe autorizzato un riduzionismo opposto a quello
deterministico-naturalistico. Anziché ridurre il soggetto a oggetto, la
causalità mediante libertà alla causalità della natura, conviene,
teoreticamente e praticamente, riportare la causalità della natura alla
sua matrice di soggettività trascendentale.