Come cura la psicoanalisi ?

06.01.2023

Mai come in questo momento storico ci sembra di assistere ad una vera e propria ossessione

per la validazione e la certificazione "scientifica" -numeri e dati alla mano- delle psicoterapie,

e dunque anche, e soprattutto, della psicoanalisi.

Una tale ossessione, apparentemente finalizzata a esigere dalla psicoanalisi la garanzia della

sua attendibilità e della sua efficacia come cura del disagio psichico, in effetti sembra piuttosto

dimostrare una resistenza ostinata a riconoscere che la psicoanalisi invece, e proprio per il suo

statuto, non può rientrare in nessun discorso di validazione scientifica senza rischiare di

perdere proprio quella credibilità e quella efficacia che pure le vengono chieste di dimostrare.

La psicoanalisi infatti sembra riporre la sua efficacia proprio nel fatto che essa, pur avvalendosi

di una sua tecnica, e pur avendo ben chiari oggetto e finalità del suo intervento, non si muove

secondo procedimenti standardizzati, applicabili a chiunque e allo stesso modo, e dunque

dimostrabili come efficaci in sé e per sé e a prescindere dalla clinica, ma, essendo pratica

dell'inconscio, si implica nelle soggettività di ogni singolo paziente, uno per uno, stabilendo

con ognuno il possibile livello di salute perseguibile, e quale, secondo dunque le singole

soggettività e non secondo modelli ideali di salute prestabiliti una volta per tutte, anzi "La

psicoanalisi mette in questione la significazione stessa della guarigione, cioè interroga ciò che

vuol dire stare bene, stare male, ma nel senso di: cosa vuol dire per te, stare bene, stare male,

stare meglio? Per te, singolarmente, non per la tua famiglia, per tuo marito, per tua moglie, ma

solo per te" (Gault 2003, 195).

Invece, il paradigma tipico della nostra epoca sembra essere sempre più quello di riconoscere

come attendibile solo il sapere della Scienza, rispetto a quello conoscitivo e soggettivo cui si

arriva attraverso quel particolare processo di cura che è un'analisi, e la cui efficacia può essere

riconosciuta, non sulla base di una asettica e standardizzata certificazione della sua validità

proveniente dall'Altro della scienza, ma sulla base di una fiducia accordata, e revocabile, dal

soggetto stesso all'Altro della cura e dunque, più che alla certificazione del metodo di cura, a

quella figura professionale, l'analista, in quanto in grado di essere credibile sul piano della

fiducia e del riconoscimento che gli si accorda, a patto che analista ci sia effettivamente

diventato. L'analista dunque, in quanto figura di riconoscimento simbolico, irriducibile a quella

di un "tecnico" che certifichi oggettivamente sé stesso e l'efficacia del suo metodo di cura, e

anche magari la certezza dei risultati.

È diffusamente riconosciuto, dal punto di vista epistemologico, che lo statuto della Scienza è

quello di "conoscenza del reale" che riduce il linguaggio che usa a quello di una registrazione

neutra, un linguaggio constatativo, vale a dire il linguaggio che certifica in maniera oggettiva e

tecnicista. Un linguaggio quindi de-soggettivato.

La psicoanalisi invece fonda la sua pratica sull'uso del linguaggio comunicativo-performativo,

del linguaggio inteso cioè come mediazione del legame sociale, del linguaggio che si organizza

attraverso le libere associazioni cui dispone il paziente, il linguaggio dell'immediatezza

soggettiva e di un "dire senza pensare" che è il solo dire possibile dell'inconscio, e quindi del

linguaggio come mediazione del transfert con l'analista, del linguaggio che non è quello del

sapere reale, ma del "transfert sul sapere" solo simbolicamente riconosciuto provenire

dall'analista, il linguaggio dunque dell'impegno soggettivo.

Altra cosa, questa sì irrinunciabile, è invece il diritto per il paziente di sapere chi sia l'analista

che si sta proponendo come tale, e di esigere che sia in grado di dimostrare come è diventato

tale e se abbia davvero attraversato quel percorso di studi e di formazione, compresa l'analisi

personale, che è il solo che lo autorizza a costituirsi come tale. Un'altra manifestazione, infatti,

dell'ossessione scientista, e del paradosso che l'attraversa, è di dare valore alla certificazione

di validità del metodo, piuttosto che a quanto l'analista sia in grado di dimostrare di saper fare.

Il sapere psicoanalitico non è dunque il sapere della scienza, ma del soggetto, è quel sapere cui

conduce, come ha dimostrato Freud, non la scienza, ma l'isterica, quell'isterica che Freud ha

saputo ascoltare, mettendo da parte il sapere della scienza del suo tempo. Per questo il sapere

della psicoanalisi non può che sfuggire alla possibilità di costituirsi come un sapere compiuto,

e definito in un discorso che abbia il rigore delle scienze così come le conosciamo. "Non

possiamo immaginare la psicoanalisi come una disciplina che possa essere insegnata e appresa

come la fisica, la chimica o l'agronomia, tanto per fare qualche esempio, cioè come un

complesso di nozioni definite, suscettibili di essere trasmesse mediante l'ausilio del pensiero

logico che, una volta apprese, possano essere, più o meno prontamente e correttamente,

utilizzate; detto altrimenti, non pensiamo che la psicoanalisi sia assimilabile ad una qualsiasi

disciplina scientifica e professionale che prepari uno studente all'esercizio di un mestiere o di

una professione. In realtà, sebbene sia anche una professione che dà da vivere a chi la esercita

- il caso del suo inventore è emblematico al riguardo - rimane portatrice di una specificità

epistemica che la rende non assimilabile del tutto né alle altre professioni né alle altre discipline

scientifiche o umanistiche. È per questo motivo che la sua trasmissione, anche al livello

dell'insegnamento della teoria, non può effettuarsi nella forma di un'esposizione conclusa della

dottrina ma abbisogna di una continua riflessione che implica una riscoperta di qualcosa che

ogni volta deve avvenire di nuovo." (Conrotto 2000, 13).

E' proprio questa particolare posizione della psicoanalisi rispetto al sapere, che fa della

psicoanalisi, non solo una epistemologia del tutto singolare, ma soprattutto una cura del tutto

singolare. È proprio questo aspetto cioè, della implicazione soggettiva, a fare dell'analisi una

cura, una cura non solo del tutto singolare, ma anche una cura efficace, in quanto non è sulla

standardizzazione secondo i canoni precostituiti della scienza e dei modelli di salute previsti

che essa poggia la sua azione, quanto sul fatto che essa, al contrario, è una cura "fuori-canone"

poiché, disponendosi ad essere risposta alla domanda del soggetto, lo ascolta. È solo la

psicoanalisi infatti ad aver dimostrato come il sintomo, piuttosto che disturbo da eliminare,

rappresenti quel discorso soggettivo da ascoltare e decifrare.

In altre parole la psicoanalisi cura in quanto, paradossalmente, si sottrae ad ogni modello di

cura stabilito, cura al di là di ogni modello di cura precostituito dalla scienza, per portare il

paziente alla "sua cur" e alla "sua salute" soggettiva.

Non è pensabile dunque una standardizzazione definitiva della cura, anche se la storia del

movimento psicoanalitico è contrassegnata da infiniti tentativi di definire una volta per tutte se

e in che modo la psicoanalisi possa esercitare la sua funzione terapeutica, e che cosa la

rendesse efficace come terapia.

Lo stesso Freud, in tutta la sua opera, non smise mai di richiamare l'attenzione proprio su

questo aspetto.

D'altra parte la psicoanalisi, e soprattutto sul versante della cura, mantiene la caratteristica

della ricerca empirica che, come tale, non esclude di poter apprendere proprio dai pazienti il

suo metodo, al punto che, potremmo dire, i pazienti sono anche per così dire i supervisoridel

proprio analista, anzi sono, come richiama Lacan, i veri analizzanti. Per questo il modo

attraverso cui opera la psicoanalisi, e la sua efficacia -che può essere proprio per questo anche

enorme- non possono dunque essere ravvisati in un protocollo univoco di tecniche e di

interventi che prescindano dal paziente. Per dirla in altri termini, in psicoanalisi non può essere

concepito nessun modello di terapia, e nessuna tecnica, che non includano anche il modo

attraverso cui l'analista si relaziona al suo paziente, e la posizione che assume nei suoi

confronti, in quanto l'analista non solo interpreta, ma si implica nell'inconscio del paziente. Per

questo indicazioni e controindicazioni della cura psicoanalitica, per quanto -soprattutto in certi

viluppi post-freudiani- si cerchi di prestabilirli una volta per tutte, finiscono per essere invece

stabiliti, e anche concordati, di volta in volta, in ogni analisi e con ciascun paziente, uno per

uno.

Relativamente al metodo, dunque, la psicoanalisi potrebbe essere vista come una scienza

empirica, che procede per via induttiva e dunque, come la biologia o la medicina, può forse

essere assimilata ad una scienza della natura perché si interessa della natura umana e formula

teorie a partire da essa. Tuttavia, a differenza delle scienze empiriche, che desumono come il

fenomeno accade dal fenomeno una volta accaduto, la psicoanalisi cerca piuttosto di cogliere

il fenomeno nel suo accadere, visto che l'oggetto del suo intervento è l'inconscio che si coglie

appunto proprio "quando accade" e nel suo aspetto evenemenziale; per questo l'intervento

analitico è anche una risposta a ciò che accade in quel momento della seduta, una risposta al

discorso del soggetto e alla domanda che in esso viene posta, in quanto il discorso del paziente

sottende sempre una domanda: che significa quello che sto dicendo? Che vuol dire questo? Una

risposta però, quella dello psicoanalista, che non è detto arrivi, soprattutto non è detto arrivi

come il paziente se l'aspetta e, comunque, una risposta pur sempre provvisoria. Perché

provvisoria? Perché se da una parte riconosciamo alla psicoanalisi di appartenere alle scienze

empiriche in grado di scoprire fenomeni naturali che hanno il carattere di verità e della

universalità (la scoperta dell'inconscio e delle sue leggi ne è d'altra parte un esempio), dall'altra

ci ritroviamo a fare continuamente i conti anche con la provvisorietà intrinseca al suo metodo

di cura? In altri termini cosa significa che quel "qualcosa che stiamo appena scoprendo ogni

volta deve avvenire di nuovo?" (Conrotto, op. cit., 13). Significa evidentemente che l'inconscio,

pur regolato dalle sue leggi di funzionamento, tuttavia si caratterizza anche per la particolarità

delle significazioni che assume in ogni individuo e che è dunque universale e particolare al

tempo stesso.

La psicoanalisi è allora sì scienza della natura, ma al tempo stesso è anche scienza del

particolare, perché l'inconscio si struttura sì attraverso la sua logica, che è la stessa in chiunque,

dunque formulabile anche in termini di leggi universali, ma si muove intorno al desiderio, che

invece è il particolare del soggetto. In questo senso l'inconscio è effettivamente strutturato

come un linguaggio che, come si sa, è universale e particolare al tempo stesso. Perciò, nel

momento in cui si dispone alla cura, lo psicoanalista si costituisce allo stesso tempo nella

funzione di ascolto di un soggetto di cui, pur conoscendo le leggi che regolano il suo inconscio,

sa di non sapere nulla circa il desiderio che lo abita.

È proprio in questo non sapere nulla del paziente che consiste la qualità della cura

psicoanalitica, ma anche la specificità della sua azione, deel modo attraverso essa cura e anche

della sua efficacia.

L'apporto di Freud

Questo specifico ambito epistemico della psicoanalisi può essere colto in Freud già negli Studi

sull'isteria (Freud 1892-95, 163-439), infatti "è a partire dall'isteria che Freud riuscì a

sviluppare le prime teorizzazioni psicoanalitiche e ad organizzare l'iniziale architettura della

mente e del suo funzionamento, tant'è che l'isteria è classicamente considerata la nevrosi, anzi,

l'origine stessa della psicoanalisi, se infatti una della prime pazienti isteriche di Freud, Emmy

von N, con il suo famoso non mi tocchi, stia zitto, rivolta al medico viennese, riuscì ad imporre

il suo discorso, mettendo di fatto lo stesso Freud nella posizione di colui che ascolta ciò che il

paziente ha da dire e dunque nella posizione dello psicoanalista." (Errico, Perrotta 2012). Nel

saggio Per una psicoterapia dell'isteria che conclude gli Studi (Freud op, cit., 394-439), Freud

riporta puntualmente le difficoltà che ha incontrato nelle sue pazienti trattate con la tecnica

dell'ipnosi, descrive come ha potuto riconoscerle ed affrontare, come ha modificato la tecnica

e quale il procedimento che man mano si è ritrovato ad adottare, non solo nella cura, ma anche

nella costruzione di un metodo -del tutto nuovo e rivoluzionario- che tendeva ad accogliere

piuttosto che rigettare ciò che, provenendo dalle pazienti, Freud non si aspettava. È in questo

modo che le libere associazioni e il transfert, inizialmente avvertiti da Freud come resistenze,

diventano invece alleati della cura e quindi i pilastri della terapia psicoanalitica. La valenza

euristica dell'analisi, come la sua efficacia terapeutica, consistono nel fatto che analista e

paziente sono disposti in maniera tale da poter essere colti da ciò che non si aspettano. In altri

termini -è questo l'insegnamento straordinario di Freud- in analisi conta quello che manca,

piuttosto ciò che è presente, vale a dire quello che, sottraendosi continuamente al discorso, nel

discorso ritorna in altri modi e in altre forme.

L'analista allora non è più colui che si attrezza a ritrovare il contenuto inconscio, il

rimosso,attraverso un procedimento attivo in un paziente passivamente regredito per mezzo

della suggestione ipnotica, ma colui che, disponendosi all'ascolto, accoglie il discorso

spontaneo del paziente. L'analista in effetti non cerca l'inconscio, ma lascia che questo lo

raggiunga, e il paziente, dirà Lacan, da analizzando, diventa analizzante.

Freud arriva dunque sempre più a comprendere che la tendenza del paziente a raccontare,

come l'attitudine alla traslazione, sono pulsioni cui egli non può sottrarsi, nonostante pure vi

resista. Sono manifestazioni e istanze di desiderio che, in quanto tale, è ineludibile, e per

quanto il soggetto cerchi di aggirarlo, torna insistentemente. Su questa via Freud scopre il

significato del sogno come realizzazione di desiderio, come la scena del desiderio e l'analisi il

luogo dove questa scena si riproduce per poterlo accogliere, comprendere, interpretare. In una

parola analizzarlo. In analisi, diversamente da quello che avviene in altri procedimenti

terapeutici, il desiderio, e l'inconscio che ne è il luogo, non sono mai elusi, ma continuamente

affrontati. Non è in questo allora che possiamo evidentemente cogliere la specificità della cura

analitica? E forse anche della sua efficacia? Nel fatto che l'analisi è il luogo del riconoscimento

del desiderio e della sua interpretazione.

Procedendo dunque nel suo metodo, Freud non si sottrasse mai, in tutta la sua opera, a porsi

la domanda di come e perché l'analisi curasse, di quali potessero essere i fattori che ne

determinassero l'efficacia terapeutica, legandola, all'inizio, essenzialmente al disvelamento dei

contenuti inconsci e dunque all'azione dell'analista che procedeva in senso inverso a quella

della rimozione.

Mi limito solo a ricordare a tal proposito che soprattutto agli inizi Freud ribadì più volte quanto

fosse importante, ai fini della cura, spiegare, informare, chiarire al paziente quello che avveniva

nel suo inconscio, perché solo questo avrebbe facilitato il superamento delle resistenze nei

confronti del ritorno del rimosso, e dunque la possibilità di rendere conscio il materiale

inconscio, condizione imprescindibile per la buona riuscita del trattamento.

In altri passaggi della sua opera (Freud 1910, 329; 1913, 333-352) il padre della psicoanalisi

andò invece man mano ridimensionando il ruolo dell'interpretazione, dimostrando che da sola

questa non poteva bastare: occorreva anche che si potesse stabilire un buon attaccamento del

paziente all'analista. In altre parole, a più riprese, Freud sottolineò anche l'importanza della

relazione tra il paziente e l'analista, fino ad affermare che è il transfert, non la conoscenza

intellettuale, ciò che fa pendere il piatto della bilancia verso l'efficacia della cura analitica (Freud

1915-17, 581-596). Quindi sin dall'inizio Freud legherà l'efficacia della psicoanalisi da una

parte alla interpretazione dell'inconscio, dall'altra al fenomeno del transfert del paziente sulla

persona dell'analista.

Non a caso la storia del movimento psicoanalitico è stata attraversata, anche in segito, dal

dibattito, e spesso dalla contrapposizione, tra l'enfasi data ora all'interpretazione ora alla

relazione tra paziente e analista.

In ogni caso, al di là dei fattori terapeutici di volta in volta considerati, gli analisti su un punto

essi sono sempre stati concordi e cioè sul fatto che non ci può essere nessuna efficacia della

pratica analitica come cura se non è correttamente esercitata da chi si è adeguatamente formato

come analista. Insomma gli psicoanalisti, nel raccogliere l'insegnamento di Freud, hanno

cercato di continuare a seguirne il percorso tracciato anche in questa direzione; hanno sempre

cercato di mettere al sicuro l'efficacia della psicoanalisi, di doverla garantire individuando una

volta per tutte i fattori che la certificassero, e dunque legittimando a occupare il posto

dell'analista solo a chi si fosse formato secondo quei principi volti a far sì che chi volesse

esercitare la psicoanalisi fosse effettivamente nelle condizioni di praticarla correttamente ed

efficacemente.

L'azione analitica

Da sempre quindi la psicoanalisi sembra interrogarsi su sé stessa, su come cura e su quali

possono esserne i fattori specifici: si tratta evidentemente di una questione che, in quanto

analisti, non possiamo mai smettere di porci, dal momento che è lo stesso procedimento

analitico, l'azione psicoanalitica in sé, potremmo dire, a porci continuamente questi

interrogativi quando siamo al lavoro con i nostri pazienti: cosa sta succedendo? stiamo

curando? come stiamo curando? Al tempo stesso, dobbiamo saper tollerare che, come analisti,

siamo anche continuamente attraversati dal non sapere che è la condizione stessa

dell'inconscio, in quanto sapere di cui non si sa.

Questo però non significa che lavorare psicoanaliticamente possa essere visto come una sorta

di procedimento alla cieca, a tentoni, un brancolare nel buio. Al contrario dobbiamo stare attenti

a non improvvisare, a non eccedere nel fare in quanto, come analisti, siamo tenuti a evitare di

fare da ostacolo a che il paziente possa mettere in parola il suo inconscio. Questa particolare

condizione dell'analista al lavoro, di essere attraversato da una parte dall'interesse a volerne

sapere di più e dall'altra dalla consapevolezza di non poterne sapere mai del tutto, anzi dal

desiderio di non volerne sapere perché il solo sapere che conta è quello del paziente, è l'aspetto

cardine di ogni azione analitica e dunque ciò che ne condiziona, a mio avviso, ed in maniera

determinante, l'efficacia.

Dunque, la posizione dell'analista nella cura, il suo modo di porsi nei confronti del paziente, la

qualità del suo dire, le modalità attraverso cui modula il suo intervento, in poche parole, per

dirla con Lacan, tutto quello che contribuisce a costituire il suo atto analitico è parte integrante

dell'efficacia terapeutica, il che significa che la psicoanalisi deve la sua efficacia anche al fatto

che essa si pone come un procedimento che tiene costantemente conto della sua stessa etica,

che, nel caso della psicoanalisi, è intrinseca -non esterna- al suo metodo.

Che cosa è un'analisi?

Ora, entrando di più nello specifico dell'analisi come cura, se ci chiediamo cioè come un'analisi

curi, non possiamo che ritrovarci, a mio avviso, di fronte ad almeno due questioni cruciali, che

non possono essere eluse.

La prima è quella di doverci chiedere anche cosa sia un'analisi: nel panorama apparentemente

complesso delle psicoterapie cosiddette psicoanalitiche, cosa può essere chiamata analisi e

cosa invece no?

La seconda: ha ancora senso oggi parlare di psicoanalisi come cura della sofferenza psichica,

soprattutto di quelle che sembrano esserne le nuove forme? In un'epoca come la nostra

caratterizzata dalla necessità della immediatezza, del tutto e subito, del qui e ora, è ancora

proponibile la psicoanalisi, con i suoi tempi lunghi, come metodo di cura in cui il "tutto e subito"

non sono possibili, richiedendosi in analisi piuttosto un'attesa, e un lavoro, affinché possa

avvenire un cambiamento che abbia una certa consistenza e che si mantenga nel tempo? E

inoltre, qual è il cambiamento che il soggetto sofferente di oggi chiede e che un'analisi può

permettere? In altre parole, a quale domanda del soggetto, oggi l'analisi può ancora pensare di

essere la risposta, visto che il soggetto della contemporaneità non sembra essere più il soggetto

isterico dell'epoca di Freud?

Sono questioni che da sole meriterebbero trattazioni estese, e tuttavia tenteremo di delinearne

almeno gli aspetti essenziali.

Partiamo dal chiederci quale può essere allora l'ambito specifico della psicoanalisi oggi, vale a

dire: cos'è che oggi può considerarsi essere psicoanalisi? Esistono una sola psicoanalisi o tante?

E ancora: cosa differenzia la psicoanalisi dalle altre psicoterapie?

Forse, per tentare una risposta, dovremmo partire da quello che la psicoanalisi sicuramente

non è: la psicoanalisi non è una terapia direttiva, né è una terapia del sintomo, e non è neanche

una terapia esplicativa, catartica, o del comportamento.

Classicamente l'analisi è piuttosto una terapia interpretativa che si struttura attraverso una

relazione nella quale la componente emotiva e quella affettiva acquistano particolare rilevanza.

Ma basta questo? Diciamo che l'analisi è sicuramente anche questo, ma non è solo questo

perché questi aspetti potrebbero essere attribuiti anche ad altre psicoterapie. Sono ravvisabili

allora aspetti riconoscibili come specifici dell'analisi e solo dell'analisi? E soprattutto è utile per

il lavoro che facciamo tentare di distinguere l'ambito della psicoanalisi da ciò che non lo è? Qui

non si tratta di stabilire un dogma, quanto la opportunità di considerare un possibile ambito

proprio di ogni psicoterapia, un campo, che nel caso della psicoanalisi è evidentemente quello

tracciato da Freud e che possiamo considerare come contrassegnato essenzialmente da tre

aspetti che concernono, il primo, il punto da cui parte ogni esperienza analitica, il secondo

l'oggetto del suo lavoro, il terzo il suo punto di arrivo. Solo se teniamo conto di queste

coordinate possiamo evidentemente cogliere la specificità del campo della psicoanalisi.

Primo aspetto: l'inizio di un'analisi.

Come inizia un'analisi? Cosa è che rende l'inizio di un'analisi diverso dagli inizi di qualsiasi

altra terapia? In effetti ogni analisi prende le mosse da una richiesta di aiuto a causa di una

sofferenza soggettiva, da una domanda dunque che è ancora comune a tutte le terapie. È solo

nel momento in cui però emerga da parte del paziente, al di là del bisogno di essere curato, il

desiderio di voler capire come e perché sta male, di voler saperne qualcosa di più sul proprio

sintomo e sulla sofferenza che lo accompagna, e anche di voler sapere di più su sé stesso, che

allora evidentemente possiamo dire che sta iniziando un'analisi.

Dunque, quello che fa, di un inizio qualsiasi, un inizio di analisi è il desiderio di sapere. L'analisi

è ciò che si costituisce attraverso un investimento sul sapere. Ogni transfert analitico inizia con

un transfert sul sapere, che diventa un transfert sull'analista perché l'analista è riconosciuto

come colui che incarna questo sapere ed è in grado di rispondere a questa domanda di sapere.

Transfert sul sapere, transfert sulla parola, transfert sull'analista sono i transfert costitutivi del

transfert psicoanalitico, ed è per questo che l'analista è, come dice Lacan, il Soggetto Supposto.

Solo supposto, perché in effetti il vero sapere sul paziente lo detiene il paziente stesso, solo

che egli non lo sa, in quanto questo sapere è un sapere inconscio.

L'analista è dunque il polo ricevente del discorso del paziente, di un discorso che l'analista non

può conoscere in anticipo, e dunque la sua posizione è quella di colui che, pur supposto sapere

come dicevamo, in effetti non sa nulla del suo paziente, se non le informazioni generiche sulla

persona e sul problema che ha potuto raccogliere durante i cosiddetti incontri preliminari.

L'analisi dunque è cio che muove da una domanda di sapere rivolta a chi in effetti non può

sapere ancora nulla. L'analisi parte da un desiderio di sapere del paziente e da una posizione

di non sapere dell'analista. Questa condizione degli inizi è una condizione che è solo

dell'analisi: possiamo parlare di analisi solo se si ci muove in partenza da questa situazione,

altrimenti non possiamo dire di essere in presenza di un'analisi: siamo in presenza di un'altra

cosa, non di un'analisi.

Analogamente, dalla parte del paziente un'analisi muove da una domanda del paziente, che è

una domanda di sapere, di saperne qualcosa sul suo sintomo: che vuol dire questo? Che vuol

dire il sintomo che mi porta qui?

Domanda che l'analista accoglie facendone il campo di lavoro e che rappresenta quella che

Lacan chiama la isterizzazione del discorso, come condizione preliminare e fondamentale di

ogni analisi.

In altre parole un'analisi inizia quando il paziente "riconosce" che il sintomo di cui egli soffre è

una questione di cui egli senza saperlo è responsabile, qualcosa che serve a qualcosa, pur non

sapendo cosa, che è un dire soggettivo di cui egli non sa cosa voglia dire. Allo stesso tempo

un'analisi inizia nel momento in cui il paziente riconosce l'analista come colui che può essere

implicato nella domanda che egli formula, come colui che si implica nel suo inconscio.

In altre parole l'analisi inizia, possiamo dire, con un doppio transfert: un transfert sul sapere e

un transfert sull'analista. Dal che ne consegue un'altra caratteristica specifica dell'analisi: vi è

analisi solo se vi è qualcosa che procede sotto transfert, un transfert che viene riconosciuto

dall'analista, per essere taciuto.

La posizione dell'analista nei confronti del paziente è dunque quella di colui che non ne sa e

non ne vuole sapere nulla in anticipo, nulla che non scaturisca dal paziente stesso in analisi,

mentre quella del paziente è la posizione di chi ritiene che l'analista sappia invece già tutto di

lui. La dialettica paziente-analista che si instaura a partire da queste rispettive posizioni

costituisce lo scambio propriamente analitico e dunque il modo specifico attraverso cui la

psicoanalisi opera, nonché ciò o che la distingue dalla psicoterapia: solo in analisi l'analista si

sottrae sempre ai continui tentativi del paziente di metterlo nel posto di colui che già sa.

Secondo aspetto: l'oggetto della psicoanalisi.

come la psicoanalisi cura se non ci poniamo anche la domanda di cosa essa curi. Qual è

l'oggetto specifico del suo lavoro? Potemmo rispondere: ovvio, la psicoanalisi si occupa

dell'inconscio. Ma di quale inconscio si tratta? La psicoanalisi cui noi facciamo riferimento è

quella che tratta specificamente l'inconscio freudiano, vale a dire l'inconscio che si costituisce

e può essere colto come un fatto mentale, in quanto "l'inconscio non appare come il significato

latente di un testo ma come l'atto che occupa la scena dell'attività mentale" (Widlöcher 1996,

92), vale a dire ciò che si trova tra lo stimolo (dell'Altro) e la risposta (del Soggetto).

L'organizzazione psichica infatti è tale che questo spazio possiamo immaginarlo

sufficientemente conservato o per meglio dire continuamente ritrovato. Per lo più, se le cose

non vanno molto male, dovremmo poter disporre di un luogo che separi ciò che proviene

dall'Altro dalla risposta che possiamo darvi, che ci permetta di sospenderla, di procrastinarla,

di differirla, luogo che altro non è se non l'effetto di quella divisione soggettiva cui siamo

sottoposti per azione della parola dell'Altro, del Significante. In altri termini per effetto della

castrazione primaria, la castrazione simbolica. Un luogo -una faglia, uno spazio cavo,

una beanza- del soggetto dove l'eccitazione pulsionale può subire un destino diverso dalla

scarica immediata cui pure per sua natura protende, dove può essere caricata dell'affetto,

rivestita di un significante, incanalata verso i gradienti della elaborazione, in una parola

simbolizzata grazie alle funzioni associative e di legame attraverso cui opera l'inconscio.

Dovremmo essere cioè in grado di slegare lo stimolo dalla risposta, e di poterlo ri-legare ad un

affetto, ad un pensiero, ad un'idea, ad una rappresentazione, in altri termini di trasformarlo in

un atto mentale inteso appunto come fatto, come il fatto proprio che può essere pensato e

detto, come il nostro discorso, che è poi il discorso che il soggetto in analisi rivolge all'analista.

La psicoanalisi, attraverso la prescrizione della regola fondamentale, in effetti si propone

proprio di favorire, o almeno di non impedire, che, tra lo stimolo e la risposta, si possa

interporre lo spazio dove la parola può intercettare la pulsione e trasformarla in un fatto

mentale analizzabile attraverso lo strumento principe dell'interpretazione dell'analista,

permettendo la psicoanalisi anche, in tal modo, che il paziente possa riconoscere non solo il

proprio fatto mentale, ma anche, e soprattutto, di esserne l'autore, vale a dire di esserne il

soggetto. Perché quello che per la psicoanalisi è strettamente collegato alla salute mentale è la

possibilità che una persona ha di riconoscersi Soggetto del suo inconscio, soggetto di ciò che

manifesta a sua insaputa attraverso il sintomo. Soggetto anche, e soprattutto, nel senso

di assoggettato. Soggetto dunque di desiderio.

Dunque il vero oggetto della psicoanalisi è il Soggetto nel momento stesso in cui egli si coglie

nel suo analizzarsi, e dunque nel momento in cui egli dice in quanto parlato dall'inconscio, cioè

dall'Altro, poiché l'inconscio -Freud, come ci ricorda Lacan, non ha fatto altro che ripeterceloè l'altra scena. L'analisi, possiamo dire, non ha allora un suo oggetto: l'analisi ha un Soggetto

invece ed è colui che la fa, l'analizzante. Per questo, la psicoanalisi non può che sfuggire ad

ogni tentativo di definirla in una pratica compiuta e circoscritta dai parametri, dai criteri e dai

principi di una tecnica standardizzabile e trasmissibile, in quanto essa è un discorso, quel

discorso che Lacan ha chiamato il discorso dell'Isterica.

Terzo aspetto: il fine di un'analisi

Questo evidentemente -e veniamo all'ultimo aspetto che specifica il campo analitico- l'obiettivo

possibile dell'analisi, e questo evidentemente l'unico che legittima il procedimento analitico.

Non l'eliminazione in sé del sintomo, che non sarebbe neanche possibile, e neanche il

perseguimento delle tre famose idealità della psicoanalisi "classica": 1) l'ideale dell'amore

genitale inteso come quello in cui si realizzerebbe appieno la relazione oggettuale; 2) l'ideale

dell'autenticità, nel senso che essendo quella analitica una tecnica di "smascheramento" non

può che condurre il soggetto alla sua autenticità più piena e genuina e alla sua verità senza veli

e inganni; 3) l'ideale dell'autonomia, in virtù del quale il soggetto può arrivare alla felice

condizione del superamento di qualsiasi vincolo di dipendenza dall'altro.

Vale la pena ricordare a questo punto, che sarà Lacan a mettere decisamente in guardia gli

analisti dal cedere a queste mire idealizzanti, che non possono che portare il paziente ad una

sorta di "ortopedizzazione" idealizzata degli assetti di funzionamento del suo Io, e non al suo

desiderio inconscio, che è il vero oggetto della psicoanalisi freudiana.

Lacan, rifacendosi pienamente a Freud è stato chiaro su questo: non è l'Io con le sue funzioni,

ma il soggetto con il suo desiderio il vero "oggetto" della psicoanalisi, in quanto è da lì, dal suo

desiderio rimosso e "dimenticato", e non dall'Io, che l'essere umano parla e soffre.

Gli analisti hanno invece -e questo li ha portati lungo la strada sbagliata della deriva da Freudhanno erroneamente visto nel famoso enunciato di Freud: "Wo Es war, soll Ich werden" la

raccomandazione di lavorare sull'Io, come apparato, e dunque di lavorare sulle sue funzioni e

sull'insieme dei suoi meccanismi di difesa. L'Io viene dunque oggettivato come "organo da

curare" migliorandone le funzioni, come infatti vediamo accadere attraverso le "tecniche" dei

sostenitori della Ego psychology, i quali, continuando in questa direzione, si sono

progressivamente spinti fino al limite delle psicoterapie cognitiviste, e finanche delle cosiddette

neuroscienze, cioè fino a quanto di più lontano possa esserci dalla psicoanalisi di Freud.

Lacan si opporrà invece energicamente a questa deriva e restituirà la frase al suo vero

significato: fa notare che Freud omette a Ich l'articolo, non parla cioè dell'Io, come istanza o

come funzione, ma di Io come soggetto. Non dice: "soll das Ich werden", ma: "soll Ich werden",

non dice: "dove era Es deve diventare l'Io", ma dice: "dove era l'Es devo diventare Io". Il che

cambia tutta la prospettiva del lavoro analitico: in quanto analisti non dobbiamo lavorare

affinché l'Io si sostituisca all'Es, ma affinché Io mi soggettivizzi sul mio Es, sulle mie pulsioni,

in particolare sulla pulsione di morte, facendoci i conti alla men peggio. (Lacan, 1953-54, 287).

Questa è l'analisi freudiana, dalla quale le correnti post freudiane si sono sempre più

allontanate, e alla quale noi, in quanto analisti che si ispirano a Freud, dobbiamo invece

ritornare.

È per questo allora che la frase "Wo Es war, soll Ich werden": "dove era l'Es, lì Io sarò",

rispettandola nella sua formulazione senza l'articolo davanti a Io, può essere a pieno titolo

considerata il manifesto costitutivo dell'analisi nel suo modo di procedere. Là dove è il rumore

dell'Es, della pulsione-scarica (che è poi la pulsione di morte, o, se si preferisce, pulsione di

godimento), lì il Soggetto arriverà a costituirsi sul proprio inconscio per dare un senso e un

nome alla pulsione, e ricondurla nella trama possibile del suo discorso.

Per concludere: brevi considerazioni sull'attualità della psicoanalisi

La possibilità per il paziente di riconoscersi, attraverso la sua analisi, soggetto del proprio

inconscio può essere immaginata anche come il transito da una dimensione duale e orizzontale,

vale a dire dal campo prettamente dell'Immaginario, verso la dimensione diciamo della terzeità,

verso la verticalizzazione del soggetto sul proprio desiderio, vale a dire verso il campo

del Simbolico. L'emblema concettuale di ciò è proprio il passaggio attraverso l'Edipo, per

meglio dire attraverso la castrazione, vale a dire che la castrazione può essere vista come il

significante di ogni possibile cambiamento e dunque anche di quello che ci aspettiamo possa

avvenire in un soggetto attraverso un'analisi.

Si tratta cioè di un aspetto di importanza non trascurabile, perché ci introduce direttamente

alla problematica del soggetto del nostro tempo, e a se e come un'analisi possa curare i pazienti

di oggi, coloro cioè che possiamo ritenere non in grado di accedere alla castrazione simbolica.

Sempre più spesso, nella nostra clinica di oggi, siamo chiamati a doverci prendere cura di

soggetti che non possono essere considerati nevrotici, i cosiddetti "nuovi pazienti" come ad

esempio i pazienti che lamentano attacchi di panico, oppure coloro che riferiscono

insoddisfazione diffusa e senso di vuoto interiore, o le anoressiche, i tossicodipendenti, o

ancora, coloro con disturbi del comportamento come i fenomeni di addiction o le

manifestazioni compulsive o di inibizione dell'azione ecc., ma anche i pazienti perversi e gli

psicotici, i cosiddetti "psicotici ordinari". In tutti questi casi, se andiamo a vedere, si tratta in

fondo di pazienti che non riescono a concepirsi come "soggetti del proprio fatto mentale", che

non sembrano cioè nelle condizioni di poter articolare un racconto da rivolgere all'analista, un

discorso appunto, come se si trattasse di soggetti "senza inconscio", per i quali a prevalere non

è tanto la rimozione, ma meccanismi più radicali come il diniego della realtà, la scissione, la

forclusione, e che sono i meccanismi in opera appunto nelle perversioni e nelle psicosi.

Di fronte alla diffusione crescente di questo tipo di pazienti, molto diversi da quelle isteriche

che hanno "inventato" la psicoanalisi e per le quali appunto l'analisi può essere vista come la

risposta che Freud ci ha indicato, la questione che si pone è: è proponibile un'analisi in questi

casi? E, soprattutto, con pazienti di questo tipo, un analista che fa?

Un'analisi come ce l'ha classicamente prospettata Freud evidentemente non sarebbe possibile,

soprattutto se la dovessimo proporre come tale sin dal suo inizio. Piuttosto, più correttamente,

dovremmo pensarla, un'analisi, non come ciò da cui partire, ma come ciò a cui arrivare, ciò a

cui tentare di condurre il paziente, pensarla come essa stessa un obiettivo, nel senso che in

questi casi la funzione dell'analista non può essere quella di interpretare l'inconscio quanto

quella di tentare di riattivarlo, di provare a rimetterlo in funzione, di provare cioè a far sì che

un paziente di questo tipo possa maggiormente riconoscersi soggetto delle sue cose, della sua

storia, del suo inconscio. Per questo, più che un'analisi vera è propria, quello a cui dovremmo

pensare in questi casi è di consentire percorsi di cura flessibili e particolarmente adattati a

queste "nuove patologie", dovremmo cioè vedere nella psicoterapia psicoanalitica il preliminare

di ogni possibile analisi intesa come analisi dell'inconscio sotto transfert.

In effetti questi soggetti, per quanto nel linguaggio -che spesso appare non a caso un

linguaggio "proprio" e poco "condiviso"- sembrano il più delle volte essere "fuori discorso", nel

senso di tendere a stabilire più che legami sociali veri e propri -dove la parola piò entrare a

costituire un discorso come scambio con l'altro sotto l'insegna del patto sociale collettivosembrano costituire piuttosto sembianti di legame, dove la dimensione individuale,

monadica, autistica, possiamo dire, tende comunque a prevalere su quella sociale e collettiva,

e dove l'altro non arriva mai ad essere riconosciuto come l'altro da sé, persistendo piuttosto

nella immagine speculare di l'altro di sé.

Una vignetta clinica mi sembra possa illustrare bene la difficoltà per il soggetto contemporaneo

di riuscire a soggettivarsi, a prendere cioè posizione di soggetto sulle proprie questioni e

dunque ad accedere ad un'analisi vera e propria, e mi sembra sia anche particolarmente

emblematica del modo prevalente di essere e di funzionare di questo soggetto che appare

sempre più spesso come un soggetto non-soggetto.

Si tratta di una signora venuta da me perché afflitta da un senso insopportabile di vuoto e di

noia esistenziale. Per molte sedute non mi parlò che di fatti concreti della sua vita quotidiana e

degli altri che la circondavano: marito, figlie, amiche. In poco tempo arrivai a sapere tutto degli

altri e niente di lei, tant'è che pensai di chiederle:

- noto che lei conosce benissimo tutto quello che avviene intorno a lei, e dunque di tutto quello

che sa così bene degli altri cosa pensa di farsene?

Mi rispose:

- il punto è proprio questo dottore: di cosa farmene non ne ho la minima idea. Forse aspetto

semplicemente che sia lei a dirmelo!"

La signora sapeva tutto, ma di tutto quello che sapeva non sapeva cosa farsene.

In un passaggio dei suoi primi seminari, non a caso il III, quello sulle psicosi, Lacan affronta la

questione della soggettivazione ricorrendo all'esempio del capitano di una nave: "Sono sul

mare, capitano di una piccola imbarcazione. Vedo delle cose che si agitano nella notte in un

modo che mi fa pensare che possa trattarsi di un segno. Come reagirò? Se non sono ancora un

essere umano, reagisco con ogni sorta di manifestazioni, come si dice, modellate, motorie ed

emotive, soddisfo le descrizioni degli psicologi, comprendo qualcosa.... Se invece sono un

essere umano, registro nel giornale di bordo: alla tal ora, al tale grado di longitudine e di

latitudine, abbiamo avvistato questo e quello. È questa la cosa fondamentale. Metto al sicuro la

mia responsabilità." (Lacan 1955-56, 216)

Cosa hanno in comune la mia paziente e il capitano di bordo di Lacan? Hanno in comune a mio

avviso che entrambe le situazioni mettono in evidenza un punto centrale della questione del

Soggetto, vale a dire il punto cruciale, se così posso dire, della firma, del fatto che ciò che mi

riguarda è ciò di cui mi assumo anche la responsabilità, è ciò rispetto a cui sono nelle condizioni

di prendere posizione, perché non è nel sapere in sé, ma nel potermi assumere la responsabilità

del mio sapere che mi costituisco come un soggetto. La signora sapeva tutto, ma, nel momento

di trarne le conclusioni e di stabilire qualcosa, di decidere, di apporre appunto la sua firma, in

quel momento ella svaniva come soggetto, in quel momento si realizzava questo fading del

soggetto. Nell'esempio del capitano Lacan ci mostra, al contrario, che un essere umano non è

chi si limita a osservare i fatti che accadono, ma chi si assume la responsabilità sugli stessi, chi

vi appone appunto la sua firma, mettendo -come dice- al sicuro la sua responsabilità.

Quindi è lì, nella possibilità di mettere al sicuro la propria responsabilità che si costituisce il

soggetto. Il soggetto non è colui che sa, ma colui in grado di sottoscrivere ciò che sa. Detto in

altri modi: non basta un sapere per fare un soggetto, ma occorre sapere cosa farsene del

proprio sapere. Non basta sapere, ma occorre saperci fare col sapere. È nel punto di

intersezione della verticalità della funzione simbolica sulla orizzontalità delle coordinate

dell'identità e dell'immaginario che si costituisce il soggetto, che in quanto tale può così

riconoscersi un po' di più nella particolarità del suo desiderio, della sua storia e del suo progetto

senza per questo sentirsi necessariamente solo e perso nel mondo. Gli attacchi di panico, così

frequenti oggi, sono proprio la rappresentazione in chiave sintomatica di questa angoscia della

responsabilità, così tipica del nostro tempo.

Non a caso la condizione che caratterizza il Soggetto della contemporaneità non sembra tanto

essere più quella edipica, quella di colui cioè che agisce non sapendo, ma quella amletica, quella

cioè di chi, pur sapendo tutto e pur sapendo quello che è giusto fare, ne procrastina l'azione

all'infinito.

Al punto del proprio riconoscimento soggettivo, e non a quello di ulteriori costruzioni

identitarie che suppliscano a poter essere soggetti di sé stessi, noi analisti speriamo di poter

condurre questi pazienti, cioè al punto in cui il sapere può diventare un saperci fare. A quel

punto in cui al sapere di avere un sintomo, subentri il saperci fare col proprio sintomo, al punto

in cui in questo modo un sintomo, da quello che in un soggetto funziona peggio, possa

addirittura diventare ciò che funzioni meglio. Il che significa, riprendendo Winnicott, che in

analisi il cambiamento non significa arrivare dunque ad essere qualcosa che ancora non si è,

quanto diventare più consapevolmente quello che già si è. In un certo senso, e

paradossalmente, possiamo dire che l'obiettivo del lavoro analitico non lo si trova nel futuro,

ma in quel futuro anteriore di cui parla Lacan, e il cambiamento in analisi non consiste tanto

nel far accadere qualcosa che non è ancora accaduto, quanto nel riprendersi ciò che è già

avvenuto per farlo accadere di nuovo, per dare parola a ciò che alla parola è stato sempre

sottratto, a permettere insomma che il paziente possa riorganizzare la trama del proprio

discorso e trovarvi un posto in cui poterci stare in maniera più sopportabile.


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