Arte e melanconia in Vincent Van Gogh secondo Massimo Recalcati
Nell'arcipelago Van Gogh occorre andare adagio, con i guanti di velluto. Occorre imparare subito a disgrossare ciò che conta da ciò che è superfluo. La lussureggiante letteratura critica fiorita intorno alla vita di Van Gogh e la tendenza terribile a sovrapporre meccanicamente vita/opera hanno dato corpo a deformazioni inenarrabili che, ancora oggi, purtroppo, ci portiamo dietro. Ho già detto altrove che l'epistolario di Van Gogh è una potente medicina che immunizza dal virus del biografismo dell'artista maledetto. Leggere le lettere a Theo significa riscoprire che, prima di tutto, Van Gogh pensa e vede da artista e i suoi "problemi" non sono di ordine psicotico, ma di natura espressiva. Le domande cruciali che rimbalzano di lettera e in lettera sono tutte fortemente polarizzate sulla verifica della sua vocazione (sono davvero un artista? La mia vocazione è autentica o solo fatica sprecata?); sulla tenuta artistica dei suoi quadri (Saprò dare forma alla forza con la quale guardo alla realtà? Questo rosso restituisce le passioni umane? Saprò tradurre per tutti i colori della notte?); sul progetto radicale di fondare una scuola o comunità di artisti nel Sud della Francia, attorno alla scoperta di un giallo assoluto e totalizzante che inonda e brucia tutto. Non rimane spazio che esiguo per le rotture psicotiche che Van Gogh ha vissuto lungo la sua breve vita, tutta incentrata, da un lato, nel primo tempo della passione per la predicazione religiosa tra i minatori del Borinage e, dall'altro, dall'incontro con la pittura, con la decisione di diventare un pittore, a partire dalle terre d'ombra del Nord olandese, dai primi appunti visivi bituminosi, impastati di bruni o ocre che esploderanno nei "Mangiatori di patate".
C'è poi un altro percorso che si può compiere nell'attività artistica di Van Gogh: quello dell'opera che plasma la vita, e non viceversa. La ricerca dell'assoluto che era in germe nel Vano Gogh predicatore rifluisce e si struttura nel pittore che incessantemente si cerca, lungo un percorso di un decennio di ricerca. Un tempo brevissimo e incalzante, dove più traguardi vengono raggiunti. La creatività vulcanica e disperata di Van Gogh brucia ad altissima temperatura e circoscrive la sua natura malinconica. Creazione e malinconia sono i due poli di questa ricerca espressiva che trasforma un dramma esistenziale in una "malinconia attiva" intesa come azione, praxis, intervento sulla materia e sulla vita. Da qui prende le mosse il saggio, davvero magistrale, di Recalcati che spazza via ogni vizio di lettura "patografica" del caso Van Gogh. Diciamo che in Vincent Van Gogh la relazione tra esistenza e opera, tra malattia mentale e creazione ha fornito materia a una lunga tradizione interpretativa, soprattutto psicoanalitica, ma risolta con strumenti spesso rozzi e goffi. Nessuno però ha saputo, al pari di Massimo Recalcati, mettere in rapporto malinconia e dipinti senza cedere a tentazioni patografiche, nel rispetto pieno dell'autonomia dell'arte. Per nessi illuminanti Recalcati procede dalle radici familiari della sofferenza psicotica di Vincent - venuto al mondo nel primo anniversario della morte del fratellino del quale gli fu imposto il nome - alla scelta di vivere da sradicato la propria indegnità di figlio vicario, alla spinta mistica verso la parola evangelica, fino all'estrema devozione alla pittura. Le maschere del Cristo e del «giapponese» servono a Van Gogh per darsi un'identità di cui si sente privo. I suoi quadri costituiscono lo sforzo estremo di attingere, attraverso la luce e il colore, direttamente all'assoluto, alla Cosa stessa, concetto che Recalcati riprende da Lacan. Ma la consacrazione all'arte, che all'inizio lo aveva salvato dalla malinconia originaria, si rivela ciò che lo fa precipitare negli abissi della follia. Il suo movimento pittorico e biografico dal Nord al Sud lo avvicina troppo al calore incandescente della Luce e in questa prossimità, come nel mito di Icaro, egli finisce per consumarsi. Vincent Van Gogh nacque il 30 marzo 1853. Lo stesso giorno di quando, un anno prima, sua madre vide morire il frutto della sua gravidanza, il suo primo figlio maschio, il più desiderato. Si chiamava Vincent, Vincent Van Gogh. Inconsolabile, ricercò la via più breve per superare lo scoglio di questo lutto impossibile da simbolizzare scegliendo per il suo secondo figlio maschio lo stesso nome del primo nato morto.
Questa madre non è stata una madre del rifiuto esplicito, della non-curanza, dell'assenza di presenza. Non ha mancato di svolgere la sua funzione di accudimento; piuttosto ha mancato, attraverso la solerzia delle sue cure, di particolarizzare l'esistenza di Vincent poiché questa esistenza non è stata concepita come un valore in sé, non è stata voluta per se stessa, ma solo come la sostituzione del figlio traumaticamente perduto.
La coincidenza simbolica della data della propria nascita con quella della nascita e della morte del proprio fratello, è un dato della biografia di Van Gogh che non può non colpire lo psicoanalista. La funzione del nome proprio è quella di iscrivere un soggetto non solo e non tanto nel registro dell'anagrafe, ma in quello assai più significativo dell'ordine simbolico. In questo senso esso manifesta la potenza simbolica del desiderio dell'Altro che con questa scelta - con la scelta del nome - opera una prima e fondamentale umanizzazione della vita, riconoscendo il figlio come un proprio frutto e includendolo nella serie delle generazioni, in modo tale che possa appartenere a un mondo simbolico e che in questo mondo possa avere diritto di esistere nella particolarità della sua propria esistenza.
Nel caso di Vincent Van Gogh il nome proprio, anziché sancire questa iscrizione, svolge piuttosto la funzione di alienarlo nel nome di un altro negandogli ogni iscrizione simbolica nel campo dell'Altro. L'iscrizione tende ad assumere un mero valore di sostituzione. Al centro non troviamo semplicemente, come spesso accade, il narcisismo immaginario dei genitori che con la scelta del nome proprio investe fallicamente l'essere del bambino ponendo, appunto, nel suo nome l'auspicio (conscio o inconscio) di una qualche realizzazione fantasmatica di cui egli dovrà farsi carico, quanto piuttosto una decisa negazione del lutto, ovvero del carattere irreversibile della perdita del primo Vincent e, di conseguenza, del carattere insostituibile del figlio perduto. Questa negazione del lutto, a sua volta, genera una sorta di devitalizzazione del desiderio del soggetto, il quale, in effetti, portando il suo nome proprio come il nome di un altro nato morto sembra venire al mondo all'ombra di un impoverimento fondamentale del sentimento della vita.
Ma il nome proprio non è sempre il nome di un altro? L'essere umano non è sempre alienato nel nome di un altro? Certamente. Il nome proprio, sospendendo l'essere del soggetto al desiderio dell'Altro, mostra come questo «essere» non consista mai di se stesso, ma sia da sempre intaccato da una presa straniera, fabbricato dalle determinazioni dell'Altro, alienato nei significanti dell'Altro. Se però questa alienazione, che per certi versi è universale in quanto per ogni essere umano il nome proprio è sempre, simbolicamente, il nome di un altro, o, se si preferisce, è un significante che aliena il soggetto, che lo rappresenta per un altro significante, nel caso specifico di Van Gogh ciò che non può non colpire profondamente è come sia stata la negazione della perdita del primo Vincent a provocare la conseguenza dell'attribuzione al secondo Vincent del nome di un altro, dunque di un nome che inchioda il secondo Vincent a occupare la funzione di sostituto del bambino nato morto.
Jacques Lacan insegna che la scelta del nome proprio è una prima e fondamentale manifestazione dell'incidenza del desiderio dell'Altro sulla vita di un soggetto. Essa definisce una prima forma di alienazione nella quale il soggetto si trova, senza ovviamente esserne stato interpellato, confrontato con i fantasmi inconsci dei suoi genitori. Sulla scelta del nome proprio convergono in effetti tutte le attese, le fantasie, le tradizioni e le vicissitudini dei familiari. In questa scelta, che non è mai casuale, un frammento di destino sembra cristallizzarsi. Nel caso di Van Gogh il suo nome proprio è il nome di un altro, è il nome di un figlio perduto, di un figlio atteso ma nato morto. La coincidenza sembra in questo caso davvero fatale: verrà al mondo esattamente lo stesso giorno, il 30 marzo, di un anno dopo la morte del fratello, quasi a suggellare che il destino assegnato al piccolo Vincent II non possa essere altro se non quello di fare rivivere il fratellino scomparso. La sua vita, dunque, la vita di Vincent II è chiamata a sostituire la vita di un altro che, in quanto perduto, tende, come spiega la psicoanalisi, ad assumere fatalmente un carattere idealizzato. Al posto di un normale lavoro del lutto che avrebbe dovuto sancire l'irreversibilità della perdita, i genitori di Vincent rispondono fabbricando nel più breve tempo possibile un sostituto reale e immaginario. Sarà dunque questo il luogo di iscrizione - o di non-iscrizione - di Vincent Van Gogh nel campo del desiderio dell'Altro. La sua vita non è desiderata in quanto tale, nella sua particolarità più propria, ma solo in quanto rende possibile la vita di un altro, negandone la morte. La sua vita appare come il prodotto dell'aggiramento, da parte dei suoi genitori, di un lutto impossibile da compiere. Il suo nome proprio resta il nome di un altro a lui prossimo quanto a lui totalmente estraneo.
La sostituzione avviene, come spesso accade, ponendo la figura di Vincent I come una figura ideale rispetto alla quale il piccolo Vincent II sarebbe, come ogni sostituto, votato a mostrare tutta la sua inadeguatezza. Il suo nome proprio non è un nome che trasmette un desiderio di vita, un'aspirazione, una memoria del passato, un radicamento nella tradizione, un augurio, una manifestazione di gioia, un entusiasmo o un debito simbolico. Il suo nome proprio è letteralmente il nome di un altro ideale rispetto al quale chi lo porta non potrà che figurare come un sostituto indegno, mai all'altezza. La data di nascita comune sembra sancire questo cortocircuito. L'uno è il sostituto dell'altro, lo rimpiazza, prendendo però indebitamente il suo posto; ma è l'altro, chi è nato prima, che cancella la vita di chi lo dovrebbe sostituire. L'altro del quale non si è fatto il lutto finisce per soverchiare, con la sua imago idealizzata, l'immagine del secondo, la quale, in quanto immagine sostitutiva, sarà sempre un'immagine di secondo grado, l'immagine di uno scarto, di una ferita narcisistica mai cicatrizzata. Da qui prende le mosse la lettura profonda di Recalcati che spazza via la cattiva letteratura critica restituendoci un Van Gogh autentico.