L'ATTACCO DI PANICO

16.12.2022

Se al di là dell'osservazione fenomenologica ci disponiamo nella posizione dell'ascolto, che più ci compete in quanto analisti, potremmo evidentemente renderci meglio conto di come gli attacchi di panico, non a caso così diffusi oggi, , più che un sintomo, o un disturbo, rappresentino in effetti una domanda, una domanda che però non trova nessun interlocutore in grado di raccoglierla e di rispondervi adeguatamente, vale a dire una domanda che non trova l'Altro cui è destinata.
Una domanda che, di conseguenza, sembra cadere nel vuoto. Una domanda che, non trovando il suo destinatario, diventa un appello senza risposta, un grido, un allarme inascoltato, che non riceve quella parola che, provenendo dall'Altro, possa essere di contenimento, di un contenimento significante.
Ma perché il panicato sembra trovarsi nella drammatica condizione di non trovare risposta al suo appello? La clinica psicoanalitica sembra dirci perché quello che viene meno, quello che manca è, per come dire, la funzione simbolica della risposta dell'Altro, che non arriva, non può fare da supporto, in quanto non è mai arrivata.
Perché, se è vero, come si dice, che il panicato è della pulsione che ha paura, sembra che ne abbia paura in quanto non dispone del simbolico per poterla immettere nel registro discorsivo in grado di darle un senso, non possiede, in altre parole, potremmo dire, il "titolo", il "codice", per poter riconoscere la pulsione come qualcosa su cui poter fare argine, circoscriverla in un sapere e dunque riconoscersene di conseguenza la legittimità. In altri termini, per meglio dire, sembra che sia il reale del proprio desiderio, quel nuovo non ancora simbolizzato, a far paura a chi soffre di attacchi di panico, poiché è come se non si riconoscesse nel diritto di potersi servire del significante, come chiave, come codice, come la "password" per poter comprendere il senso di quel nuovo cui il suo desiderio lo sospinge.
Un paziente piuttosto giovane, un brillante professionista apparentemente molto sicuro di sé, intraprendente e disinvolto con i suoi clienti abituali, non poteva evitare il panico ogni qualvolta ne dovesse incontrare qualcuno nuovo e soprattutto in contesti non abituali: l'angoscia che lo pervadeva in tali circostanze si accompagnava sempre all'inquietante interrogativo: che ci faccio qui? Pur sapendo di aver pieno diritto, in ragione della sua professione, di essere lì a ricevere il nuovo cliente, bastava però che la situazione dell'incontro fosse da lui vissuta come nuova, per sentirsi del tutto delegittimato: è come se mi sfuggisse il senso, e la ragione, e il significato della mia presenza lì - mi diceva - Chi sono io per essere qui? Che ci faccio qui? - si chiedeva angosciosamente in quelle circostanze.Il problema invece non si poneva quando l'incontro poteva avvenire in presenza di un collega, di un collaboratore, meglio ancora di un dirigente, purché figure comunque tali da fungere come raccordo con le ragioni di lavoro che potevano solo in tal modo giustificare la sua presenza lì.Presenze che, in quanto organiche alla sua Azienda, erano da lui riconosciute come idonee a conferirgli legittimità e "titolo" a stare lì, figure che potevano sussistere come l'Altro del codice, l'Altro in quanto tesoro dei significanti in grado di dare senso e contenimento a quel reale pulsionale che si mobilitava attraverso il suo lavoro nell'incontro con l'Altro della domanda.
L'attacco di panico sembra dunque essere l'effetto dello "slegamento" con l'Altro significante, e questo evidentemente perché il panicato non ha mai ricevuto dall'Altro, dal padre - evidentemente -, il "titolo", le "credenziali" per affrontare il mondo. Il padre infatti a questo serve: se da una parte interdice il godimento dell'incesto, dall'altra autorizza a un godimento altro, e di un ordine superiore, che è quello di potersela sbrogliare da solo nel mondo, perché conferisce, attraverso la parola, il "titolo", appunto, per poterlo fare, vale a dire un desiderio legittimato. Insomma, il padre è quella figura che funziona proprio perché se da una parte deve fare un po' paura in quanto interdice, in quanto Legge, dall'altra tranquillizza perché, dopo l'interdizione, autorizza ad altro, dopo il divieto, permette, dopo aver detto no, ora può dire . Nel panicato è mancato evidentemente un padre che abbia potuto svolgere questa doppia funzione, e il sintomo ne è la richiesta, il tentativo di ripristinarla.
Per questo, a mio avviso, l'evoluzione del sintomo "attacco di panico" (paura senza confini) verso il sintomo "fobia" (paura confinata in un oggetto) viene considerata come "un passo verso la guarigione", in quanto, evidentemente, il reperimento dell'oggetto fobico può essere visto come la metafora, anzi la metonimia, del padre cui rivolgere finalmente la domanda, e di cui avere, finalmente, anche paura, perché meglio avere paura di un padre, avendolo, che avere paura non avendo un padre di cui avere paura.

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